Ali Hirèche concerto alla Salle Cortot

Ali Hirèche

Ali Hirèche: concerto alla Salle Cortot

Ali Hirèche concerto alla Salle Cortot

Sabato 5 ottobre è stata la volta del pianista Ali Hirèche presso la Salle Cortot. Hirèche, nato a Parigi e formatosi fra la Ville Lumière (con Antonio Ruiz-Pipó), il Conservatorio di Milano (Riccardo Risaliti) e le Accademie di Imola e Cadenabbia, ha suonato un programma-monstre comprendente l’integrale degli Studi di Chopin (op. 10 e op. 25) e delle Variazioni su tema di Paganini di Brahms (Libro I e II). Si tratta di pagine che il pianista cesella fin dagli anni di studio e che ha inciso in cd: suonarle tutte in un unico concerto, però, è tutt’altra cosa. Ne è risultato un concerto ad alta temperatura emotiva, sottilmente percorso da una tensione che ha fatto emergere in maniera evidente gli aspetti rivoluzionari e la natura indomita dell’ispirazione chopiniana, mai sottoposta a manierismi sentimentaleggianti o, al contrario, a eccessi di algido controllo.

Hirèche ha iniziato con l’op. 25: ampio e lirico il primo Studio, febbrile il secondo, elettrizzante il terzo. Perfino in un’acustica rotonda come quella della Salle Cortot, il pianista ci ha ricordato che Chopin non è immune da spigoli: piuttosto che ricercare un’omogenea levigatezza, Hirèche ha enfatizzato il contrasto fra morbidezze languide e momenti parossistici, prossimi alla violenza (op. 25 n. 11 e 12 in particolare, ma anche op. 10 n. 4 o n. 12). È del resto la partitura a chiederlo. Come nel cd uscito di recentemente, un’attenzione particolare è rivolta alle voci interne e alla polifonia, quasi a ricordarci l’importanza che Bach aveva (anche a livello didattico) per Chopin. È in ffetti, quello di Hirèche, un pianoforte che mira all’assoluto più che al paesaggistico, e che poco si sofferma su effetti di mera suggestione, per ricercare invece un’autenticità emozionale più profonda, viscerale. La struttura del discorso è attentamente pensata, ma nel momento esecutivo si sprigiona anche una componente “animale” che può essere tanto più libera quanto più è stratificato e profondo lo studio dell’opera.

Nonostante l’alto virtuosismo degli studi più rapidi, è forse nei più lenti e riflessivi che Hirèche ha saputo totalmente lasciarsi andare ed esprimere questa dimensione archetipica in un modo che ha lasciato il pubblico col fiato sospeso (op. 25 n. 7, op. 10 n. 3, op. 10 n. 6). Fra i momenti più alti del concerto, da citare anche lo Studio delle ottave, con un contrasto nettissimo fra la giusta spavalderia delle sezioni esterne e il carattere pudico, sospeso e sognante, della sezione centrale.

L’op. 10 ha in realtà chiuso il colossale recital, al cui centro erano posti il I e II libro delle Variazioni di Brahms (con un breve intervallo fra i due). Dal punto di vista dell’estetica musicale, è interessante il fatto che l’abbinamento Chopin-Brahms, piuttosto raramente proposto, non è risultato affatto peregrino: Hirèche, prescindendo completamente dai luoghi comuni su “come si deve suonare” l’uno o l’altro autore, ha accomunato i due compositori sotto il segno di un virtuosismo vòlto – pur in modi diversi – all’ampliamento visionario di ciò che la musica può evocare. Evocare questa visionarietà al nostro tempo è possibile solo a patto di non aver paura di enfatizzare alcuni aspetti della scrittura: Hirèche va in questa direzione, e preferisce rischiare (anche nell’adozione di tempi talvolta al limite del possibile) piuttosto che adagiarsi in una rassicurante e controllata cura estetica. La decennale frequentazione con questi lavori, tuttavia, gli permette di mantenere anche una pulizia invidiabile. Il pubblico ha seguito con sempre maggiore partecipazione emotiva la strada di Hirèche, fatta di pensiero e viscere, fino a tributargli un’ovazione finale.

Come bis, lo Schubert dell’ultimo dei Moments Musicaux ha confermato la visione anti-sentimentalistica del romanticismo musicale da parte di Hirèche: poco incenso, poca melassa e nulla di consolatorio nella sua lettura, ma un’essenzialità lucida e al contempo intensamente espressiva.

Articolo di Luca Ciammarughi – Rivista Musica